Tuesday, April 26, 2016

Pur desueta, la “casa di lavoro” o la “colonia agricola” continua a essere inflitta ad alcuni dopo il carcere

Quei “lavori forzati” pena del passato nel nuovo millennio

SARAH MARTINENGHI
Sono un retaggio del passato, uno dei pochi scampoli d’annata del codice Rocco. Ma esistono ancora, in Italia, i “lavori forzati”: una misura di sicurezza detentiva sopravvissuta a ogni riforma che prevede la costrizione per il detenuto a zappare la terra, raccogliere ortaggi o tagliare la legna. Un provvedimento desueto, sempre meno applicato, non a caso chiamato “ergastolo bianco”. Discusso e controverso, considerato da molti anacronistico, ai limiti del disumano. Ma alcuni magistrati della procura credono ancora nella sua utilità e, quando hanno per le mani il bandito incallito, il malvivente recidivo che entra ed esce dal carcere e bollato come “delinquente abituale”, oltre che “socialmente pericoloso”, chiedono ai giudici questo aggravamento della condanna. Il detenuto, una volta scontata la sua pena, passerà dal carcere alla “casa di lavoro” o alla “colonia agricola”. Fino a quando la relazione di un magistrato di sorveglianza non riterrà superata la sua pericolosità e gli restituirà la libertà.
È riuscito a ottenerla, pochi giorni fa, il pm Roberto Furlan. Il caso giudiziario è quello di Vincenzo D’Alcalà, pregiudicato di Santena con una lunga ”carriera” nei reati di estorsione e di usura, che nella sua vita ha già collezionato per tre volte la misura di sicurezza della casa di lavoro, chiesta ed ottenuta, tra l’altro, sempre dallo stesso magistrato. La prima volta per D’Alcalà, era stata nel 2003: il giudice Alessandra Salvadori gli aveva inflitto sette anni di carcere e tre di “lavori forzati”. «Ma poi, per paradosso, uscì con l’indulto del 2006, e nel 2008 gli fu applicata la misura di sicurezza in una casa lavoro dell’Emilia Romagna — ricorda l’avvocato difensore Claudio Strata — Scontò solo un anno in quella struttura, in cui era entrato anche per via di un altro procedimento da cui fu assolto. Poi tornò in libertà».
Ma, indagando sull’omicidio dell’avvocato Alberto Musy, Furlan si imbatte di nuovo in D’Alcalà, come personaggio legato a Francesco Furchì. Nascono due procedimenti; uno per usura, che si conclude a novembre quando il gup Alfredo Toppino lo condanna a sei anni e 10 mesi più due di casa lavoro; l’altro per estorsione al manager Luca Di-Gioia, da cui avrebbe preteso 20 mila euro per inserirsi nell’affare Arenaways. La corte presieduta dal giudice Maria Iannibelli gli infligge sette anni e altri due di “lavori forzati”. «Auspichiamo che quando sarà necessaria una valutazione, si possa dimostrare che D’Alcalà non è un soggetto pericoloso » commenta l’avvocato Strata. Più volte Furlan ha ottenuto questa misura, era successo un anno fa per una banda di rapinatori seriali (Michele Capezzera, Vincenzo Mecca e Giovanni Nardozzi), e in precedenza per Gerardo De Vito, un intermediario di affari accusato di fatture false ed evasione di Iva. Anche il pm Andrea Padalino, negli ultimi anni, ha visto applicare con successo i “lavori forzati” per scippatori, rapinatori e trafficanti di droga.
Quando fiocca questa misura, che i pm chiedono già in fase di indagine, è matematico anche il ricorso del difensore. «I detenuti in tutta Italia sottoposti a questa forma di detenzione sono al massimo un centinaio — spiega Mauro Palma, il garante nazionale dei detenuti — le strutture sono pochissime in tutta Italia, e spesso non si svolge nemmeno un vero lavoro. Un caso positivo è a Vasto, dove ci sono progetti seri. Ma per il resto il rischio è che diventi un “parcheggio” per chi non ha una rete sociale di protezione. Pochi sanno che è passata una riforma, un anno fa, grazie alla quale gli anni lì dentro non possono superare quelli di carcere inflitti in sentenza: tecnicamente non è più un ergastolo bianco». Il rischio, prima, era il fine pena mai.
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Fonte: La Repubblica, fascicolo cronaca Torino, pagina XII, 20 aprile 2016

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